martedì 23 dicembre 2014

Pioggia in città

Quel giorno una grande nuvola nera bagnava tutta la città. Le strade diventavano specchi tremolanti continuamente infranti dalle vetture affrettate. Più in là qualche incrocio diventava un concerto di clacson, un’esplosione improvvisa di quella musica strana che Bianca aveva sempre sentito. Lei dal suo banco di scuola poteva ammirare tutta la scena: si faceva piccola piccola accanto alla finestra e, senza farsi vedere, sbirciava la città – o meglio, quello che ne vedeva attraverso il vetro appannato dal suo calore. La posizione alta dal quarto piano le permetteva una vista privilegiata sull’ampia strada sottostante e sulle piccole macchine tutte in fila ordinata, rombanti d’impazienza. Di tutte quelle auto vedeva bene le lucine rosse posteriori, così sgargianti: pareva colorassero a festa la via. Per non parlare del fumo bianco che ne usciva borbottando in goffe nuvolette che si dissolvevano sinuose. Eh sì, quando pioveva, la città era proprio bella e Bianca fremeva su quel banco verde. Al suono della campanella di fine lezione sarebbe scappata nelle vie a caccia delle meraviglie della pioggia. Sotto il banco stringeva nelle manine un piccolo oggetto del laboratorio dello zio dal nome altisonante: un pluviometro nuovo di zecca. L’aveva tenuto da parte per un’occasione speciale e quel giorno l’avrebbe finalmente usato.
La lezione finì e lei volò nel piccolo giardino affollato dai bimbi. Protetta dal suo ombrello, si accovacciò per qualche istante sotto all’unico albero. Allungò la mano e con il pluviometro raccolse le gocce che scivolavano lungo le foglie. Com’eran dolci! Bianca pensò che scendessero dal cielo solo per posarsi a quel modo su di loro, e accarezzarle prima di cadere al suolo. Allora guardò soddisfatta tutte le carezze che in poco tempo aveva raccolto ed alzò lo sguardo, pronta a scovare le altre meraviglie della pioggia.
Alcuni passanti videro quella bambina camminare allegra, un po’ asciutta e un po’ bagnata: ogni tanto, infatti, spingeva via dalla testa l’ombrello per guardare il cielo e poi si ritraeva al sicuro, ridendo per le goccioline che le colavano sulle guance. Nessuno poteva immaginare che stesse cercando il punto esatto in cui quell’acqua nasceva, nel cielo sconfinato. Altri la videro ballare e canticchiare accanto agli ingorghi del traffico: per lei quella era una delle più belle sinfonie, così scoppiettante: il clacson grave del camioncino veniva sovrastato da quello più acuto della macchinetta, ed ora l’uno ora l’altro suonavano ad intermittenza. Così, da una parte all’altra della via, vicino o in lontananza, un ritmo si creava e le goccioline svelte cadevano su quelle note. A Bianca ricordavano le ballerine che aveva visto ad un balletto con papà: allora, tra una giravolta e l’altra, ogni tanto allungava il braccio e lasciava scivolare quelle piccole ballerine nel pluviometro, accanto alle carezze del cielo.
A Bianca non piacevano solo queste danze rombanti, ma la affascinavano anche i concerti della pioggia nelle strade chiuse al traffico: alcuni goccioloni, cadendo sul suo ombrello con un grosso tonfo, parevano il suono grave di tamburi, altri, cadendo sulle grondaie, riecheggiavano di suoni metallici. La piccola si rannicchiò accanto ad un muro, così da essere protetta dal tetto della palazzina, e chiuse gli occhi.  Seguì quel nuovo ritmo fatto di suoni delicati. Nel vicolo non c’era nessun altro rumore e forse solo lì la pioggia poteva suonare indisturbata la canzone del suo cielo. Si immaginò il signor direttore di quell’orchestra, che doveva essere nascosto lassù: un omino bianco e spugnoso che, steso su una nuvoletta, agitava la bacchetta di direttore. La faceva vorticare in aria in curve e cerchi e le goccioline si disponevano su quelle traiettorie invisibili; poi, al segnale dell’omino, si lasciavano cadere una per volta o tutte insieme, a seconda della canzone. Allora a Bianca pareva di veder quei segni invisibili tracciati dal direttore e si accingeva a raccoglierli nel pluviometro, così frammentati nelle gocce.

A fine giornata, soddisfatta del suo raccolto, guardò nel piccolo oggetto e ammirò di nuovo le carezze, le ballerine e le note del cielo: vedeva ancora i loro volteggi nei riflessi del liquido, o nelle piccole onde sulla superficie. Certo quelli non erano solo pochi millilitri di acqua piovana…

mercoledì 3 dicembre 2014

Geometrie nella trilogia “I nostri antenati” di Italo Calvino

Sembra irrinunciabile per Italo Calvino l’esistenza di una geometria all’interno dei suoi romanzi, una solida struttura di relazioni attorno cui la narrazione stessa si sviluppa. Un sistema razionale è infatti frutto del fare poetico di questo autore: egli, per parlare del reale, riconduce la pluralità inafferrabile del mondo circostante a pochi elementi essenziali che poi combina e ricombina in relazioni poliedriche, come fossero carte del gioco dei tarocchi. Da queste relazioni che si creano scaturisce poi il suo racconto regolare tutto volto a trattare di quella realtà caotica che l’autore dapprincipio ha rifuggito.
L’importanza di queste strutture geometriche e la loro capacità, seppur siano così regolari, di esprimere l’irregolarità della realtà quotidiana è visibile nella trilogia I nostri antenati, realizzata negli anni Cinquanta del Novecento. Qui, tra vaghe ambientazioni fiabesche, echi di epoche lontane e borbottii di eserciti schierati affiorano geometrie tutt’altro che indefinite. Esse si instaurano tra i protagonisti dei racconti, tra i vari personaggi che li popolano e tra pochi elementi del paesaggio. Potremmo seguire linee rette o arricciate anche nelle azioni che questi personaggi compiono, o nelle caratteristiche che li connotano: evidente è il caso del visconte Medardo di Terralba sciaguratamente diviso da una palla di cannone in due metà perfettamente simmetriche, e che così mozzato dimezza ogni cosa che incontra. Altro caso è quello di Agilulfo, un cavaliere senza corpo che esiste solamente grazie alla sua volontà e che forse guarda con languida invidia il suo scudiero tutto corpo e niente coscienza. Infine è rilevante un barone in apparenza tutto intero, ma che ha bisogno di imporsi di vivere sugli alberi per sentirsi tale, personaggio che esprime in modo più implicito la geometria esplicita presente negli altri due romanzi della trilogia. Tuttavia questi sono solo i tratti generali del sistema combinatorio dei pochi elementi che l’autore si è divertito a creare, sempre diverso e innovativo in tutti i racconti presi in considerazione.
Innanzitutto riducendo all’osso la struttura de Il visconte dimezzato troviamo un sistema binario di contrapposizioni. Esso è visibile nell’immagine stessa del protagonista. Il visconte Medardo di Terralba in una battaglia è stato colpito da una palla di cannone e ne è rimasto mozzato in due metà assolutamente simmetriche quanto opposte: quella destra sembra racchiudere la parte negativa di Medardo, tanto che si avvale del nome di Gramo per le azioni orribili che compie, mentre la metà sinistra è totalmente buona. Non contento di aver creato questa dicotomia così netta, l’autore la espande anche alle azioni delle singole metà: mentre il Gramo si diletta a condannare a morte gli abitanti del suo regno ed a commettere malignità d’ogni sorta, la metà buona compie opere di carità in modo insaziabile. Tale perfetta contrapposizione si esprime anche nella caratterizzazione – seppur blanda – delle due metà. Entrambe hanno infatti subito il dramma della perdita di una parte di se stessi, comprendendo di non essere stati interi nemmeno in precedenza alla loro scissione, ma reagiscono a tale presa di coscienza in modi opposti. Se da un lato il Gramo vorrebbe dividere a metà tutti gli elementi del mondo perché nessuno di essi è intero, dall’altro la metà buona vorrebbe consolare tutti gli individui del dolore provocato da questa scoperta, compiendo atti magnanimi.
Una seconda opposizione è riscontrabile nei due personaggi che rappresentano la scienza: mastro Pietrochiodo e il dottor Trelawnay. Il primo, carpentiere al servizio del visconte, esprime un sapere pratico: impiega la sua raffinata conoscenza tecnica per realizzare le opere commissionategli da Medardo nel modo più efficiente possibile. Il suo operare assume però una connotazione negativa. Il Gramo infatti gli ordina ordigni di morte per impiccare le persone che condanna, e mastro Pietrochiodo si impegna nella loro realizzazione senza preoccuparsi del loro futuro impiego.
Se da una parte il sapere scientifico di Mastro Pietrochiodo è pratico e utile ma in un’accezione estremamente negativa, dall’altro il sapere astratto del dottor Trelawnay è innocuo ma totalmente inutile. Proprio questo personaggio, in quanto dottore, dovrebbe darsi da fare sul piano pratico curando i propri pazienti, ma non fa ciò: non visita nemmeno la povera balia Sebastiana che, ingiustamente accusata dal Gramo di aver contratto la lebbra, viene allontanata dalla cittadina. Si perde invece in ricerche scientifiche totalmente inutili, come possono esserlo il trovare la cura di una malattia dei grilli che non provocava nessun danno, ricerche geologiche, e infine tentativi di acchiappare i fuochi fatui nei cimiteri.
Un ultimo evidente contrasto si articola tra le due comunità che popolano il romanzo, esterne al paese. La prima consiste in un gruppo di ugonotti che, scappati dalla Francia, si sono insediati a Col Gerbido.  Questi hanno sciaguratamente perduto i loro libri sacri durante la traversata delle montagne ma, seppur privi del loro rito, non vogliono rinunciare a praticarlo: creano quindi un sistema di proibizioni da osservare estremamente rigido. Vivono così tra penitenze, duro lavoro – in una terra probabilmente arida se si considera il significato del nome del luogo, Gerbido – e assoluta serietà,  tanto che anche il più piccolo accenno di riso viene condannato. A compensare la cupezza degli ugonotti vi è la comunità dei lebbrosi che abbonda di lasciva allegria. Così allontanati dai cittadini che temono il contagio, i lebbrosi confinati a Pratofungo godono di una libertà quasi assoluta e nella loro cittadina vivono in continue feste, musiche, balli e danze.
Tale struttura di contrasti netti tra due personaggi o gruppi di persone è in parte presente anche ne Il cavaliere inesistente. Agilulfo, il protagonista del racconto, è un cavaliere singolare in quanto privo di corpo: si presenta come un’armatura bianca e impettita ma vuota al suo interno. Egli infatti esiste solamente perché ha volontà  d’esistere, come egli stesso afferma. Sembra non avere anche atteggiamenti tipicamente umani: oltre a non dover dormire, è privo di mollezze, di sentimenti. Si dimostra al contrario il massimo dell’esattezza e della razionalità: non solo non sbaglia mai un’azione, a partire dalle piccole mansioni che deve svolgere all’accampamento, ma è estremamente geometrico nel compierle. È proprio tale ferma razionalità che lo tiene in vita, dato che una sola idea incerta metterebbe in discussione la sua stessa esistenza.  Simbolica a riguardo è la sua morte: egli, dissolvendosi, lascia l’armatura impilata in una perfetta piramide. Agilulfo solo-volontà vorrebbe ciò che il suo scudiero ha ma che non sa d’avere: un corpo. Gurdulù è infatti il suo esatto contrario, in quanto esiste fisicamente ma non è assolutamente cosciente della propria esistenza. Il suo procedere è, al contrario di Agilulfo, curvo e imprevedibile, a zig zag. Se si considera che egli crede di essere tutto ciò che vede davanti a sé si comprende il motivo di tale andamento: potrebbe addirittura gettarsi in un lago starnazzando convinto di essere una papera, alla vista di essa. Perciò, così privo di identità, non ha nemmeno un nome unico e gli appellativi che lo connotano cambiano da paese a paese. Questi due personaggi sono quindi opposti ma legati tra loro da una relazione molto stretta in quanto ognuno ha ciò che l’altro dovrebbe avere per essere completo. Tuttavia tale contrasto non ha un ruolo centrale come avviene ne Il visconte dimezzato, ma è marginale per quanto riguarda lo sviluppo della vicenda. Per capirne le trame, dobbiamo ricercare questa stessa opposizione in veste implicita, all’interno di altri personaggi. Uno di questi è il giovane Rambaldo che vuole affermare la propria identità di uomo attraverso azioni valorose sul campo di battaglia, come può essere la vendetta del proprio padre ucciso dai Turchi. Egli è infatti continuamente sospeso tra l’incoscienza e la coscienza di esistere, incarnando un punto di contatto tra le figure di Agilulfo e Gurdulù.
Nella sua affermazione dell’identità Rambaldo è spinto a cercare il cavaliere inesistente in quanto figura più solida di ogni altro soldato presente, ma proietta la meta della sua ricerca anche in un altro personaggio: la bella Bradamante della quale si innamora. Crede infatti di poter finalmente ottenere una solida prova della propria identità di uomo attraverso l’amore per la donna. Tuttavia anche Bradamante, seppur apparentemente così razionale e perfetta, è nel bel mezzo di una ricerca: tende all’esattezza e alla perfezione d’animo che non vede in sé, ma nel suo amato Agilulfo. Ecco che si profila un esempio delle relazioni geometriche che intercorrono tra i personaggi. Rambaldo cerca di affermare sé stesso appoggiandosi alla solida figura di Agilulfo, ma le sue azioni prendono altre due direzioni: l’affermazione attraverso il valore militare e attraverso l’amore per Bradamante. Anche Bradamante è però insicura, e tende all’esattezza di Agilulfo per realizzarsi.
Ne il cavaliere inesistente sembra venir meno la rigida dicotomia che era alla base del racconto ne Il visconte dimezzato, creando così un disegno geometrico più articolato: le linee di contrasto ora convergono in un personaggio unico, ora coinvolgono più personaggi. Portando la geometria ad un livello interiore ha inoltre maggiore importanza il messaggio che l’autore vuole esprimere, che diventa così inscindibile dal costrutto geometrico. Un disegno ancora meno esplicito e fortemente legato a valori etici si presenta ne Il barone rampante, come si può ben vedere dalla trama del romanzo. Non vi è più una dicotomia netta tra il protagonista e un altro personaggio a lui diametralmente opposto, ma troviamo un solo protagonista. L’unica opposizione esplicita che pervade tutta la storia è inoltre provocata dal protagonista stesso: dal momento in cui Cosimo decide di vivere sugli alberi si crea una forte opposizione tra aria e terra. Tale divisione fisica assume valore cruciale solamente in base al volere di Cosimo, che diventa di conseguenza il motore vero e proprio della vicenda, assieme alle motivazioni di tale scelta. Egli vuole prendere le distanze dalla realtà che lo circonda per poterla vedere meglio da un punto di vista distaccato, e per potervisi inserire. Decidendo di non metter più piede sulla terra, egli non si allontana dagli uomini che la abitano, come si potrebbe credere. Al contrario, tale vita gli permette di inserirsi nella comunità molto più di quanto potesse fare stando nella propria residenza: socializza con contadini, viandanti, la marchesina Viola, briganti, carbonari... insomma, tutte le persone che gli capita d’incontrare. Un esempio della maggiore vicinanza agli altri che questa presa di distanza permette è l’amicizia con il Cavalier Avvocato Enea Silvio Carrega, figura che, stando sulla terra, Cosimo non aveva mai conosciuto. Così due piani terra e aria si contrappongono, ma presentano frequentissimi punti di contatto, tanto che sembra che tale opposizione serva al raggiungimento di un’unità: in questo caso la geometrica contrapposizione si disperde all’interno della trama, immergendosi nel significato etico che essa stessa esprime. Inoltre è proprio per trovare una propria identità – e quindi un’unità – che il protagonista decide di vivere sugli alberi: il nostro autore ci fa infatti sapere che è possibile realizzare la propria pienezza sottomettendosi a “un’ardua e riduttiva disciplina volontaria”.
Come si è dimostrato, la regolarità della struttura e dei rapporti tra i personaggi è fondamentale in queste opere di Italo Calvino per esprimere in primis una particolare condizione: quella dell’uomo che è incompleto ed aspira ad un’unità, sia questa divisione fisica, sia totalmente interna. Tali contrapposizioni che appaiono così lontane dalla vita reale costituiscono il fondamento per discutere, senza mai offrire una risposta univoca, di valori e problemi che riguardano la realtà stessa.



martedì 25 novembre 2014

Cercando l'arte tra le calle di Venezia

Forse è inutile chiedersi come mai una città come Venezia riscuota così tanto fascino. Nonostante le sue vie siano ricolme di turisti, rimbombanti di accenti provenienti dalle parti più disparate del mondo, mantiene sempre la sua raccolta semplicità: basta lasciarsi guidare dal caso errando per le calle più inusitate per riscoprire il silenzio delle onde rade provocate da qualche gondola lontana. Sedersi sul gradino di un piccolo ponte e semplicemente guardarsi intorno sembra essere il segreto per assaporare ciò che la città è.
Come tanti, anche io sono stata rapita dal suo duplice fascino: chiassosa città di feste mascherate da un lato, quieta abitante di canali schivi dall'altro. In questo mio piccolo viaggio mi sono lasciata alle spalle San Marco, il Ponte dei Sospiri ed ogni luogo affollato ed ho apprezzato vie incredibilmente anguste e deserte, zone residenziali fatte di quotidiana quiete. Ogni piccolo dettaglio ha richiesto attenzione per essere compreso: anche il volo elegante di gabbiani si è pian piano rivelato una feroce battaglia attorno alla barca del pescatore appena rientrato.
Accanto a scene di vita quotidiana, ho poi ritrovato un'altra quiete all'interno di musei. Li ho esplorati attraverso un piccolo taccuino di carta bianca e una semplice matita. Senza badare al tempo che passava mi sono persa nelle increspature del volto di quel centauro scolpito nella pietra, o nelle pieghe della veste della sensuale Venere, così candida in quel marmo di Carrara.



Carnevale di Venezia: maschere
Olio su tela, 50x60
D'altronde dovevo visitare di nuovo quella Venezia che per un anno ho tentato di suscitare in un quadro. O meglio, ho scoperto, ricopiandolo, il fascino delle maschere del carnevale. I loro sguardi sono così sfuggenti ma allo stesso tempo penetranti. Scrutano chi li osserva, con un'aria di indiscreta curiosità: la testa inclinata come a porre una domanda, e lo sguardo dell'altra maschera che si rivolge a scrutare qualcuno che non vedremo mai.

lunedì 17 novembre 2014

La multiforme bellezza




Parigi, 15 aprile 1874

In un pomeriggio d’aprile Jerome sedeva sulla poltrona del suo salotto proprio sotto la finestra aperta. Si lasciava inondare dal calore del sole primaverile: ora che non era più in grado di vederne la luce, era solito scaldarsi così, totalmente esposto ai suoi raggi. Restava immobile fino al tramonto; solo allora, con la pelle arrossata e scintillante di sudore, si dirigeva verso il tavolo per consumare il pasto preparato dal servitore. Nonostante la cecità, la sua figura esile e tremolante manteneva un passo deciso e si muoveva rapida, evitando ogni ostacolo nella stanza angusta.  Jerome aveva sviluppato gli altri sensi a tal punto che sembrava vedesse esattamente ogni oggetto o mobile che gli ostacolava il cammino. Anche quando bussarono alla porta andò ad aprire con disinvoltura. Sapeva che avrebbe varcato la soglia la figura alta e massiccia di César: aveva riconosciuto il suo respiro ansimante al di là del legno e i suoi passi affrettati, timorosi di arrivare in ritardo all’appuntamento. Allo schiocco della serratura la porta si aprì con un cigolio e l’euforia di Cesar invase l’ingresso.
<< Mio caro amico, sono le nove in punto! Sempre in orario e sempre di buon umore. Sai che sei il benvenuto nella mia casa anche con qualche minuto di ritardo o con un volto imbronciato. Tuttavia mi sembra che oggi tu sia più allegro del solito: percepisco euforia in ogni tuo movimento e scommetto che in questo momento le tue labbra sono schiuse in un sorriso >>.
<< Hai detto bene, Jerome. Sono estremamente felice >> rispose, mentre consegnava al servitore il soprabito raffinato e il cilindro nero. Accompagnato dalla sua voce squillante il critico d’arte  entrò nel salotto parigino arredato secondo la moda del tempo. Si lasciò cadere sull’elegante divanetto ricamato e dopo aver attentamente osservato gli ornamenti orientali del tappeto ricominciò a parlare. << Non sai quali novità scorrono tra le vie di questa Parigi di fine Ottocento, amico mio. L’arte sta subendo una rivoluzione: mentre alcuni artisti espongono opere accademiche, puri trionfi di tecnica e disegno,  altri propongono quadri che sconvolgono totalmente ciò che noi chiamiamo arte. Jerome, sono ancora turbato da ciò che ho visto oggi! Stamattina, verso le undici, mi sono recato in Boulevard des Capucines, curioso di scoprire che cosa potessero proporre questi pittori moderni. Avrai sicuramente sentito parlare della mostra che gli impressionisti hanno allestito nello studio del fotografo Nadar; ebbene, nonostante altri critici la disprezzino, io ne sono davvero entusiasta. Amico mio, mi rincresce parlarti di qualcosa che non puoi vedere ma la bellezza di quelle pitture mi ha inebriato al punto che non posso non parlarne >>.  Cesar scrutò Jerome per cogliere una qualche reazione visibile su quel volto rugoso e bruciato dal sole. Sapeva quanto l’argomento fosse delicato: prima di perdere la vista a causa della cataratta l’amico era un pittore dotato di una sensibilità straordinaria. Egli aveva vissuto per la bellezza, quell’inutile bellezza che solo l’occhio può cogliere.  Per un momento il volto di Cesar si rabbuiò pensando alla condizione del cieco: come doveva essere la sua vita privata della possibilità di vedere i colori attraverso cui si esprimeva? Rispose tra sé e sé che un pittore non sarebbe sopravvissuto in un mondo totalmente buio, senza armonie di tinte e toni di luce.  Tuttavia Jerome non sembrava soffrirne: il suo volto era sereno, quasi rallegrato dalle parole dell’amico e la sua bocca rilassata appariva come una sottile linea curiosamente infossata sotto il peso delle rughe. Cesar trasalì nell’udire la voce velata del vecchio. << È solo un piacere, per me, udire l’arte di nuovo e ti sarei grato se mi descrivessi qualche opera così che possa vederla anche io, immaginata. Conosco ancora i colori e le sfumature, mio caro, li creo e li riassemblo con la fantasia in composizioni incredibili. Ora potresti guidarmi, con le tue parole, a immaginare i quadri che questi pittori moderni hanno dipinto. Sono certo che riuscirai ad esprimere le emozioni che trasmettono con le loro tinte: non ho mai dubitato della tua eloquenza >>.
Cesar guardò più attentamente l’amico e si accorse che era cambiato qualcosa in lui dalla sua ultima visita. Era più sereno e stranamente disposto ad ascoltare discorsi sull’arte che mesi prima l’avrebbero reso irascibile. Si alzò ed andò nella cucina per stappare la bottiglia di champagne che aveva portato con sé. Che cos’era accaduto a Jerome? In alcuni mesi sembrava aver superato il trauma della cecità che si portava dentro da ormai cinque anni. Per la prima volta non l’aveva visto irrequieto, e nemmeno fingeva di star bene come aveva già fatto altre volte. Il sughero del tappo schioccò scivolando fuori dal collo della bottiglia, sotto la pressione delle mani di Cesar. Prese due calici dalla piccola credenza e vi versò lo champagne. Decise che avrebbe accontentato l’amico: qualunque ne fosse la causa, Jerome aveva di nuovo bisogno di godere della bellezza dell’arte. Avrebbe quindi descritto qualche quadro, facendo emergere il significato più profondo di ogni opera, traducendo in parole il loro mistero.
Entrò nel salotto fiocamente illuminato, posò un calice sul tavolino vicino alla poltrona del cieco. Si avvicinò alla finestra sorseggiando la bevanda e, volgendo le spalle alla stanza, cominciò a parlare. << Ebbene, caro Jerome, sono felicissimo di condividere con te le emozioni che quella mostra mi ha dato. Durante la mia carriera di critico d’arte ho visto le più svariate opere; tutte esprimevano sentimenti in modi sempre diversi. Oggi ho assistito a qualcosa di totalmente nuovo: immagina di vedere grandi tele dipinte con soggetti ordinari, offuscati dalle pennellate. Un paesaggio o una lezione di danza privi di contorni definiti emergevano dalla tela: non erano altro che chiazze annebbiate di colore. Poche pennellate violente di bianco  apparivano all’occhio come una nuvola morbida e corposa che vagava leggiadra in un cielo indaco. Non credevo a ciò che vedevo: tratti dettati dal caso, stesi frettolosi, inconsapevoli del loro ruolo, dialogavano tra loro e nell’insieme riproducevano la realtà. Non penso di esagerare nell’affermare che un paesaggio rappresentato in ogni suo infinitesimo particolare non avrebbe trasmesso le stesse emozioni e non avrebbe immerso lo spettatore nei suoi giochi di colori come hanno il potere di fare gli indefiniti quadri di questi pittori. Uno in particolare, dipinto da un certo Monet, era un insieme di pennellate disordinate tanto da sembrare il disegno di un bambino. Inizialmente mi era sembrata un’informe nebbia azzurra e arancio che si estendeva su tutta la superficie della tela; poi guardai meglio e cominciai a distinguere i particolari. Una chiazza un po’ più scura ricordava la forma di una barca con a bordo piccoli pescatori, mentre galleggiava sulla liquida superficie del mare in bonaccia. Le onde lievi erano scherzi di linee parallele a volte nette e azzardate, a volte mescolate con tocchi di un azzurro più tenue. In alto il cerchio arancione del sole risaltava tra la nuvola di foschia tipica del mattino. Una spessa linea piatta sembrava accennare all’orizzonte e, nel punto in cui era più spessa, al porto. Le solide costruzioni sulla riva, unica sicurezza per marinai reduci dall’informità del mare, sembravano fantasmi abbandonati in un gioco di colori, fatti di aria salmastra. Il cielo non si distingueva dal mare se non per il riflesso del sole sullo specchio piatto dell’acqua: tutto era mescolato e reso fluido dalla foschia mattutina. Ho amato quel quadro, caro Jerome, perché mi ha coinvolto nella povera e comune scena rappresentata. Ho ammirato l’alba come un pescatore indaffarato ad avvolgere le reti a bordo della sua barca, inumidito dall’aria pesante. La pittura indefinita di Monet mi ha permesso di immergermi nella nebbia e vedere la vera bellezza di un’alba reale. Per questo motivo sono così entusiasta di una pittura sgarbata e priva di dettagli come questa: le sue pennellate ruvide riescono a trasmettere la bellezza di un’emozione, non si limitano a ricercare l’armonia e la perfezione delle sole forme rappresentate >>.
Cesar tacque. Il suo sguardo perso nell’oscurità della notte di là dal vetro tentava di ricreare il quadro appena descritto, spinto dall’emozione. Ogni volta l’arte scavava nella profondità del suo animo e lo estasiava: per lui era l’unica cosa in grado di rappresentare e trasmettere appieno la vera bellezza del mondo, una delle poche cose, cioè, per cui egli viveva. Bevve l’ultimo sorso di champagne e si avvicinò al centro della stanza. Si sedette sul divanetto cremisi e appoggiò sul tavolino il bicchiere vuoto, accanto a quello ancora colmo dell’amico. Alzò lo sguardo e colse Jerome in un atteggiamento nuovo. Tremando impercettibilmente, sedeva irrigidito con la testa abbandonata sul soffice schienale. Ad un certo punto, in silenzio, si protese in avanti, cercò a tastoni il calice e bevve un sorso della bevanda. Respirò profondamente tenendo il bicchiere a mezz’aria, rapito da pensieri che lo trasportavano fuori da quella stanza e dalla mondana Parigi ottocentesca. Sotto le palpebre, le pupille cieche si muovevano irrequiete da una parte all’altra, come se seguissero il volo di uccelli immaginari. Posando il bicchiere parlò con una voce che esprimeva calma millenaria.
<< Le tue parole mi emozionano, Cesar, e mi portano a pensare ad altro oltre alla mostra che mi hai descritto. Rifletto su che cosa significhi l’arte per me e mi rendo conto che la mia carriera è stata una continua ricerca della bellezza. Volevo ricreare sulla tela l’aspetto incantevole della natura; essa si manifestava armoniosa e i suoi colori suscitavano in me emozioni profonde. Cominciai a dipingere proprio nel tentativo di cogliere quella magia che racchiudeva ed era in grado di emozionarmi. Allora mi stupivo di come una sottile crosta di colore steso su una tela potesse suscitare la stessa sensazione di bellezza senza che io, pur essendone l’autore, l’avessi compresa. Non conoscevo la causa di quell’armonia, eppure ero in grado di riprodurla. Mi convinsi, quindi, che l’arte fosse, proprio come la natura, custode del segreto della bellezza: essa era un’armonia che giaceva tra i colori di un soggetto. Puoi quindi capire che cosa è stato per me rimanere totalmente cieco. Non potevo più godere di tutto questo, non mi sarei più rallegrato davanti alla bellezza di un tramonto. Fui disperato. Ero privato di ciò che per anni mi aveva donato gioia e che era stato il mezzo di espressione della mia interiorità. Immerso nel mio mondo buio ero diventato insensibile e incapace di provare anche la più piccola emozione. Poi pian piano capii: gli altri sensi si affinarono, diventai autosufficiente. L’udito e il tatto erano la mia nuova vista. Cominciai a frequentare salotti, ritrovai il piacere di una discussione e della musica. La melodia di un piano mi fece comprendere che potevo ancora provare emozioni in un corpo cieco e rattrappito come il mio. Rinacque in me la curiosità di conoscere il mondo e la voglia di percepirlo. Mi rallegravo delle piccolezze che non avevo mai notato prima e le trovavo incredibilmente piacevoli: il ticchettio dell’acqua sul vetro, il calore del sole, i profumi. Tutto conteneva quella magia che attribuivo solo alla pittura, quell’armonia divina in grado di suscitare emozioni.
Caro mio, la bellezza è in ogni cosa, è multiforme e basta essere disposti a vederla. Non si trova solo in un’opera d’arte o in un paesaggio: è in un tramonto, nelle note di un piano, nel pelo soffice di un animale, nel fruscio delle foglie al vento, nella voce di un amico. Ora sono in grado di percepirla e, credimi, non sono mai stato così felice. In ogni momento mi nutro della bellezza che mi circonda >>.
Cesar salutò l’amico, indossò il suo grosso cappotto nero e scese nella buia strada di Parigi. Con la fronte aggrottata pensava alle parole di Jerome. Si fermò davanti all’ingresso, chiuse gli occhi e per un attimo stette in ascolto: il rumore di carrozze affrettate e il vento fresco non gli davano alcun piacere. Provò a fare qualche passo, ma sentì solo un senso di smarrimento e lieve terrore. Confuso, aprì gli occhi e se andò, costringendosi a pensare alla mostra impressionista che aveva visto. Comprendeva perfettamente la bellezza dell’arte e riteneva che questa fosse l’unica forma che essa poteva assumere. Non poteva pensare che qualcosa di così nobile si trovasse in elementi effimeri e quotidiani come il fruscio di foglie secche. Non voleva credere alle parole di Jerome: era ancora troppo cieco per capirle. Camminò frettolosamente fino al suo palazzo, circondato dall’armonia della notte che si ostinava a non ascoltare.

sabato 15 novembre 2014

L'idea ignorata

So bene che un'idea ignorata continua a bussare alla porta finché non le viene aperta. Come posso lavorare e riflettere sui sottili giochi di Calvino con tutto questo irritante trambusto? E per giunta so che quell'idea non è indesiderata, ma anzi l'accoglierei a braccia aperte. Non mi alzo dalla scrivania solo perché il mio studio deve procedere senza interruzioni. E lei continua a bussare: cnock cnock. Ad ogni tocco il mio animo si rammolisce e, ahimè; non bada più a quello che sta facendo. Comincia a fantasticare: chi può essere mai? é lui che con un mazzo di fiori è venuto a recarmi fiumi di parole?
Alla fine mi decido: ormai vesto l'aspettativa sui miei occhi, come lenti a contatto ben appiccicate sulla pupilla.
Apro la porta e chi trovo ad aspettarmi?
Mancanza.
Zittita dal nulla, ritorno alla scrivania. So che ritornerò a quella porta finché non troverò più la Mancanza ad aspettarmi.

lunedì 3 novembre 2014

Note incantate

Ascolto, da lontano, le dita che scorrono veloci su un pianoforte. La melodia delicata permea l'aria senza disturbarla, ci rende partecipi della sua magia. Questo suono mi distrae, mi attrae: immagino una ragazza seduta davanti a quel pianoforte che ho visto, nella stanza affrescata.
Lei, nella solitudine, crea indisturbata. Le note la travolgono, nel cuore di questa rosa che sboccia, mentre noi ne percepiamo il profumo - i petali ci sfiorano appena. Ciò che giunge in questa stanza è armonia e sentimento.
E allora mi rivolgo a questi muri candidi perché mi dicano da dove il suono incantato provenga. Non mi sanno rispondere: proviene da ogni luogo e da nessuno.
Ciò che sento è il dono gratuito dell'arte.

Riflessioni a Bologna

Quando Plauto sbuca nelle vie di questa città


È l’uomo ciò di cui voglio parlare. Ora lasciate che la mia fantasia riempia lo spazio e si espanda nelle vie di questa città ancora sconosciuta.
Ciò che vedo è l’uomo nella sua multiforme concretezza.
Le strade sono un mosaico di viandanti singolari: ognuno intento ad esprimere ciò che lui è.
Un signorotto sul far della vita gozzoviglia per i marciapiedi in sella alla sua bici. Si spinge con uno slancio del piede e, noncurante del tempo che passa,  percorre le strade con il naso all’insù, lascia qualche occhiata curiosa alle vetrate dei negozi e finalmente si ferma pigramente davanti alla bancarella della frutta, forse attratto – come del resto han fatto tanti artisti prima di lui – dal fascino esotico di banane esposte. Un artista dallo stile singolare, forse? O un semplice viandante spensierato bisognoso di frutta? Permettete alla fantasia di viaggiare, vi prego, e di ricercare tra queste vie le espressioni più varie dell’umano.

Ognuno va a spasso con la sua caratterizzazione, mi pare – vedo il signor Plauto che sogghigna divertito dietro ad una colonna di questo suo teatro. Ammira le maschere che ha messo in scena con tanta precisione: l’avvocato saccente, il nonno pensionato, il ragazzino curioso, il ribelle esasperato… tutti sono lì sul suo sipario: nessuno ha risparmiato.
<< Ma mi dica un po’, signor Plauto – lo avvicino di sorpresa e scantono nella gran folla – a che pro radunare tutta questa gente così variopinta? >>. E lui mi guardò con fare divertito. Con un gesto teatrale del braccio si allargò ad indicare ogni singolo attore: << Vedi, osserva. Trovami l’Uomo nella moltitudine e quella sarà la risposta. >>
Al che non trattenne più il riso e scoppiò nel suo clamore divertito piegandosi in due, rotolando su se stesso. Poi scomparve in mezzo agli attori, completando così l’opera sua.

Mai ci fu trovata più originale e ironica per parlare dell’uomo, di ciò che l’uomo sia.