Sembra
irrinunciabile per Italo Calvino l’esistenza di una geometria all’interno dei suoi
romanzi, una solida struttura di relazioni attorno cui la narrazione stessa si
sviluppa. Un sistema razionale è infatti frutto del fare poetico di questo
autore: egli, per parlare del reale, riconduce la pluralità inafferrabile del
mondo circostante a pochi elementi essenziali che poi combina e ricombina in relazioni
poliedriche, come fossero carte del gioco dei tarocchi. Da queste relazioni che
si creano scaturisce poi il suo racconto regolare tutto volto a trattare di
quella realtà caotica che l’autore dapprincipio ha rifuggito.
L’importanza
di queste strutture geometriche e la loro capacità, seppur siano così regolari,
di esprimere l’irregolarità della realtà quotidiana è visibile nella trilogia I nostri antenati, realizzata negli anni Cinquanta del Novecento. Qui, tra
vaghe ambientazioni fiabesche, echi di epoche lontane e borbottii di eserciti
schierati affiorano geometrie tutt’altro che indefinite. Esse si instaurano tra
i protagonisti dei racconti, tra i vari personaggi che li popolano e tra pochi
elementi del paesaggio. Potremmo seguire linee rette o arricciate anche nelle
azioni che questi personaggi compiono, o nelle caratteristiche che li
connotano: evidente è il caso del visconte Medardo di Terralba sciaguratamente
diviso da una palla di cannone in due metà perfettamente simmetriche, e che
così mozzato dimezza ogni cosa che incontra. Altro caso è quello di Agilulfo,
un cavaliere senza corpo che esiste solamente grazie alla sua volontà e che forse
guarda con languida invidia il suo scudiero tutto corpo e niente coscienza. Infine
è rilevante un barone in apparenza tutto intero, ma che ha bisogno di imporsi
di vivere sugli alberi per sentirsi tale, personaggio che esprime in modo più
implicito la geometria esplicita presente negli altri due romanzi della
trilogia. Tuttavia questi sono solo i tratti generali del sistema combinatorio
dei pochi elementi che l’autore si è divertito a creare, sempre diverso e
innovativo in tutti i racconti presi in considerazione.
Innanzitutto riducendo all’osso la struttura de Il visconte dimezzato troviamo un sistema binario di contrapposizioni. Esso è visibile nell’immagine
stessa del protagonista. Il visconte Medardo di Terralba in una battaglia è
stato colpito da una palla di cannone e ne è rimasto mozzato in due metà
assolutamente simmetriche quanto opposte: quella destra sembra racchiudere la
parte negativa di Medardo, tanto che si avvale del nome di Gramo per le
azioni orribili che compie, mentre la metà sinistra è totalmente buona. Non
contento di aver creato questa dicotomia così netta, l’autore la espande anche
alle azioni delle singole metà: mentre il Gramo si diletta a condannare a morte
gli abitanti del suo regno ed a commettere malignità d’ogni sorta, la metà
buona compie opere di carità in modo insaziabile. Tale perfetta
contrapposizione si esprime anche nella caratterizzazione – seppur blanda –
delle due metà. Entrambe hanno infatti subito il dramma della perdita di una
parte di se stessi, comprendendo di non essere stati interi nemmeno in
precedenza alla loro scissione, ma reagiscono a tale presa di coscienza in modi
opposti. Se da un lato il Gramo vorrebbe dividere a metà tutti gli elementi del
mondo perché nessuno di essi è intero, dall’altro la metà buona vorrebbe
consolare tutti gli individui del dolore provocato da questa scoperta,
compiendo atti magnanimi.
Una seconda
opposizione è riscontrabile nei due personaggi che rappresentano la scienza:
mastro Pietrochiodo e il dottor Trelawnay. Il primo, carpentiere al servizio
del visconte, esprime un sapere pratico: impiega la sua raffinata conoscenza
tecnica per realizzare le opere commissionategli da Medardo nel modo più
efficiente possibile. Il suo operare assume però una connotazione negativa. Il
Gramo infatti gli ordina ordigni di morte per impiccare le persone che
condanna, e mastro Pietrochiodo si impegna nella loro realizzazione senza
preoccuparsi del loro futuro impiego.
Se da una
parte il sapere scientifico di Mastro Pietrochiodo è pratico e utile ma in
un’accezione estremamente negativa, dall’altro il sapere astratto del dottor
Trelawnay è innocuo ma totalmente inutile. Proprio questo personaggio, in
quanto dottore, dovrebbe darsi da fare sul piano pratico curando i propri
pazienti, ma non fa ciò: non visita nemmeno la povera balia Sebastiana che,
ingiustamente accusata dal Gramo di aver contratto la lebbra, viene allontanata
dalla cittadina. Si perde invece in ricerche scientifiche totalmente inutili,
come possono esserlo il trovare la cura di una malattia dei grilli che non
provocava nessun danno, ricerche geologiche, e infine tentativi di acchiappare
i fuochi fatui nei cimiteri.
Un ultimo
evidente contrasto si articola tra le due comunità che popolano il romanzo, esterne
al paese. La prima consiste in un gruppo di ugonotti che, scappati dalla
Francia, si sono insediati a Col Gerbido.
Questi hanno sciaguratamente perduto i loro libri sacri durante la
traversata delle montagne ma, seppur privi del loro rito, non vogliono
rinunciare a praticarlo: creano quindi un sistema di proibizioni da osservare
estremamente rigido. Vivono così tra penitenze, duro lavoro – in una terra
probabilmente arida se si considera il significato del nome del luogo,
Gerbido – e assoluta serietà, tanto
che anche il più piccolo accenno di riso viene condannato. A compensare la
cupezza degli ugonotti vi è la comunità dei lebbrosi che abbonda di lasciva
allegria. Così allontanati dai cittadini che temono il contagio, i lebbrosi
confinati a Pratofungo godono di una libertà quasi assoluta e nella loro cittadina
vivono in continue feste, musiche, balli e danze.
Tale
struttura di contrasti netti tra due personaggi o gruppi di persone è in parte
presente anche ne Il cavaliere inesistente. Agilulfo, il protagonista del
racconto, è un cavaliere singolare in quanto privo di corpo: si presenta come
un’armatura bianca e impettita ma vuota al suo interno. Egli infatti esiste
solamente perché ha volontà d’esistere,
come egli stesso afferma. Sembra non avere anche atteggiamenti tipicamente
umani: oltre a non dover dormire, è privo di mollezze, di sentimenti. Si
dimostra al contrario il massimo dell’esattezza e della razionalità: non solo
non sbaglia mai un’azione, a partire dalle piccole mansioni che deve svolgere
all’accampamento, ma è estremamente geometrico nel compierle. È proprio tale
ferma razionalità che lo tiene in vita, dato che una sola idea incerta
metterebbe in discussione la sua stessa esistenza. Simbolica a riguardo è la sua morte: egli,
dissolvendosi, lascia l’armatura impilata in una perfetta piramide. Agilulfo
solo-volontà vorrebbe ciò che il suo scudiero ha ma che non sa d’avere: un
corpo. Gurdulù è infatti il suo esatto contrario, in quanto esiste fisicamente
ma non è assolutamente cosciente della propria esistenza. Il suo procedere è,
al contrario di Agilulfo, curvo e imprevedibile, a zig zag. Se si considera che
egli crede di essere tutto ciò che vede davanti a sé si comprende il motivo di
tale andamento: potrebbe addirittura gettarsi in un lago starnazzando convinto
di essere una papera, alla vista di essa. Perciò, così privo di identità, non
ha nemmeno un nome unico e gli appellativi che lo connotano cambiano da paese a
paese. Questi due personaggi sono quindi opposti ma legati tra loro da una
relazione molto stretta in quanto ognuno ha ciò che l’altro dovrebbe avere per
essere completo. Tuttavia tale contrasto non ha un ruolo centrale come avviene
ne Il visconte dimezzato, ma è marginale per quanto riguarda lo sviluppo
della vicenda. Per capirne le trame, dobbiamo ricercare questa stessa
opposizione in veste implicita, all’interno di altri personaggi. Uno di questi
è il giovane Rambaldo che vuole affermare la propria identità di uomo
attraverso azioni valorose sul campo di battaglia, come può essere la vendetta
del proprio padre ucciso dai Turchi. Egli è infatti continuamente sospeso tra
l’incoscienza e la coscienza di esistere, incarnando un punto di contatto tra
le figure di Agilulfo e Gurdulù.
Nella sua
affermazione dell’identità Rambaldo è spinto a cercare il cavaliere inesistente
in quanto figura più solida di ogni altro soldato presente, ma proietta la meta
della sua ricerca anche in un altro personaggio: la bella Bradamante della
quale si innamora. Crede infatti di poter finalmente ottenere una solida prova
della propria identità di uomo attraverso l’amore per la donna. Tuttavia anche
Bradamante, seppur apparentemente così razionale e perfetta, è nel bel mezzo di
una ricerca: tende all’esattezza e alla perfezione d’animo che non vede in sé,
ma nel suo amato Agilulfo. Ecco che si profila un esempio delle relazioni
geometriche che intercorrono tra i personaggi. Rambaldo cerca di affermare sé
stesso appoggiandosi alla solida figura di Agilulfo, ma le sue azioni prendono
altre due direzioni: l’affermazione attraverso il valore militare e attraverso
l’amore per Bradamante. Anche Bradamante è però insicura, e tende all’esattezza
di Agilulfo per realizzarsi.
Ne il
cavaliere inesistente sembra venir meno la rigida dicotomia che era alla base
del racconto ne Il visconte dimezzato, creando così un disegno geometrico più
articolato: le linee di contrasto ora convergono in un personaggio unico, ora
coinvolgono più personaggi. Portando la geometria ad un livello interiore ha
inoltre maggiore importanza il messaggio che l’autore vuole esprimere, che
diventa così inscindibile dal costrutto geometrico. Un disegno ancora meno
esplicito e fortemente legato a valori etici si presenta ne Il barone
rampante, come si può ben vedere dalla trama del romanzo. Non vi è più una
dicotomia netta tra il protagonista e un altro personaggio a lui diametralmente
opposto, ma troviamo un solo protagonista. L’unica opposizione esplicita che
pervade tutta la storia è inoltre provocata dal protagonista stesso: dal
momento in cui Cosimo decide di vivere sugli alberi si crea una forte
opposizione tra aria e terra. Tale divisione fisica assume valore cruciale
solamente in base al volere di Cosimo, che diventa di conseguenza il motore
vero e proprio della vicenda, assieme alle motivazioni di tale scelta. Egli vuole
prendere le distanze dalla realtà che lo circonda per poterla vedere meglio da
un punto di vista distaccato, e per potervisi inserire. Decidendo di non metter
più piede sulla terra, egli non si allontana dagli uomini che la abitano, come
si potrebbe credere. Al contrario, tale vita gli permette di inserirsi nella
comunità molto più di quanto potesse fare stando nella propria residenza:
socializza con contadini, viandanti, la marchesina Viola, briganti,
carbonari... insomma, tutte le persone che gli capita d’incontrare. Un esempio
della maggiore vicinanza agli altri che questa presa di distanza permette è
l’amicizia con il Cavalier Avvocato Enea Silvio Carrega, figura che, stando
sulla terra, Cosimo non aveva mai conosciuto. Così due piani terra e aria si
contrappongono, ma presentano frequentissimi punti di contatto, tanto che
sembra che tale opposizione serva al raggiungimento di un’unità: in questo caso
la geometrica contrapposizione si disperde all’interno della trama,
immergendosi nel significato etico che essa stessa esprime. Inoltre è proprio
per trovare una propria identità – e quindi un’unità – che il protagonista
decide di vivere sugli alberi: il nostro autore ci fa infatti sapere che è
possibile realizzare la propria pienezza sottomettendosi a “un’ardua e
riduttiva disciplina volontaria”.
Come si è
dimostrato, la regolarità della struttura e dei rapporti tra i personaggi è
fondamentale in queste opere di Italo Calvino per esprimere in primis una
particolare condizione: quella dell’uomo che è incompleto ed aspira ad
un’unità, sia questa divisione fisica, sia totalmente interna. Tali
contrapposizioni che appaiono così lontane dalla vita reale costituiscono il
fondamento per discutere, senza mai offrire una risposta univoca, di valori e
problemi che riguardano la realtà stessa.
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