giovedì 29 agosto 2013

Il vecchio, pazzo Belzebù

Il vecchio Belzebù sedeva sulla sua sedia come su un trono. Immobile, semplicemente lasciava aderire tutto il suo peso al cuscino dello schienale: a braccia incrociate, metteva gambe e piedi sotto la maestosa protezione della forza di gravità e ammirava come questi stessero fermi ben piantati a terra. Ogni tanto lasciava penzolare anche testa bocca e palpebre per sentire quanto fosse forte la sua amica gravità; ahimè ogni giorno diventava una presenza sempre più ingombrante. Che ci poteva fare? lui l'accoglieva, incuriosito. Ben presto divenne la sua più stretta conoscente: giorno e notte Belzebù e la Gravità andavano a spasso insieme, ad ogni gesto l'una accompagnava l'altro. Non c'era cosa che Belzebù facesse senza la Gravità: se mentre si lavava i denti o si radeva la barba non sentiva la sua presenza, prolungava l'operazione per ore fino a quando avrebbe sentito gli arti più pesanti. Allora, muoveva solo i muscoli facciali per schiuderli in un sorriso e, contento, continuava la toeletta per godere un po' di più della compagnia della prediletta.
La Gravità era diventata talmente importante per lui che Belzebù cominciò a raccontarle i suoi viaggi immaginari. Il vecchio, infatti, aveva trovato un modo interessante di passare le sue giornate senza fare sforzi: seduto nella sua solita posizione sul trono-sedia, guardava rilassato la finestra davanti a lui. Estate o inverno che fosse non gli importava il paesaggio e nemmeno quello che accadeva nel giardino al di là del vetro: lui viaggiava in miriadi di mondi paralleli, uno diverso dall'altro. A volte gli capitava di passeggiare per un paesaggio di Van Gogh scivolando tra le sue possenti pennellate, altre si ritrovava in un quadro surrealista, altre ancora vedeva città all'avanguardia che nessun pittore si era azzardato a dipingere, fino a quel momento. Ma non solo: visitava case a forma di petalo di rosa, di evidenziatore, di lampada, di computer, vedeva cieli in cui volavano balene, mari popolati da rondini e passerotti e molto altro ancora. Le avventure che viveva erano ogni volta bizzarre e nuove; a volte faticava ad uscire dal viaggio così emozionante, e vi stava per ore e ore dimenticando la realtà.
Così la Gravità cominciò ad accompagnare Belzebù anche nei suoi viaggi immaginari, e che piacere era per lui viaggiare in compagnia! Ora non si sentiva solo neppure a cavallo delle comete più lontane nello spazio; finalmente, dopo tanto tempo, era di nuovo felice. Perché avrebbe dovuto ritornare in questo mondo in cui la Gravità pesava e non era solamente una splendida compagnia? Preferì rifugiarsi per sempre nell'avventura della leggerezza e dell'ignoto.
Ora Belzebù é chiuso nella stanza di un manicomio. "é pazzo - dicono - resta tutto il giorno completamente immobile. Ogni tanto ride, sì, ride con gusto giusto per farci sapere che in qualche modo é ancora con noi. Chissà che cosa accade nella testa di quel pazzo!"

Il vecchio silenzioso Belzebù, con il suo sorriso strampalato stampato in viso, rimarrà un mistero per tutti quanti: nessuno potrà mai immaginare quanti mondi e universi e paesi impossibili stia visitando, in realtà, a cavallo della scia di una cometa.

domenica 25 agosto 2013

Timidezza

Leggera e pacata
abbassa lo sguardo,
immobile.

Sorride,
china la testa, e subito
la sua chioma cela
ogni segreta espressione.

Riemerge
come volto di porcellana
levigato,
inaccessibile.

martedì 20 agosto 2013

Tramonto sulla neve


Alzo gli occhi al di là di quel vetro che porta i segni dell'infanzia, e mi si presenta davanti un deserto desolato di alberi spogli e neve bianca, così freddo ma allo stesso tempo così ardente, sotto la luce del sole al tramonto. Impavido si staglia questo scenario, vibrante di vita, vibrante di immensità.
 Le nuvole, memori del ricordo del sole ormai nascosto, fiammeggiano incendiate di bagliori color ciclamino, pietre incastonate su un cielo indaco. I resti di quel fuoco, come tizzoni non ancora spenti, divampano le loro ultime forze all'orizzonte;  dimentico del luogo, vola in lontananza un uccello, macchia aggraziata in questo teatro di luce così eterno, ma così stupefacente nell'attimo fuggevole in cui si manifesta.


venerdì 16 agosto 2013

Metropolitana a Manhattan

Nelle viscere della città scorre una macchina di morte. Schiere di anime affrettate attendono nella soffocante aria afosa che arrivi il treno, all'improvviso, accompagnato dal suo meccanico frastuono. Stridono le ruote sulle rotaie: le persone sul bordo della banchina tremano vedendo il binario ora colmato dalla velocità inarrestabile della macchina in corsa. Un attimo, e ciò che sono non sarebbe più stato. Il loro viso non dista che una manciata di centimetri, ma non si spostano: sono impedite da enormi pilastri alle loro spalle. Proprio i pilastri che sostengono il peso della città, la loro casa, ora li bloccano, tra la folla, ad un passo dalla morte.


lunedì 12 agosto 2013

Profondità marina

Nel ventre del mare
lontano da ogni cosa
ci stringevamo per mano
per essere invincibili
davanti al solitario silenzio dell'abisso

Persone

é interessante entrare in contatto con persone sconosciute. Semplicemente vedere i loro piccoli comportamenti quotidiani, le espressioni volatili che si impossessano del volto per qualche istante, per poi fuggire. Piccolezze, certo. Piccolezze che indicano la strada tortuosa verso l'universo che la persona porta in sè.
Ogni volta che noto questi indizi sfuggevoli sorrido: ognuno di loro porta con sè un intrigante dubbio.

Ritorno da New York

Sono ritornata da poco in Italia, in questo paesino sperduto ancorato sulla propria terra, tenuto in gabbia dalle sue stesse radici. La solitudine e il caldo asfissiante del luogo mi straniano: tutto è avvolto da un sottile velo di negligenza, di monotonia, di abitudine mai interrotta. L'aria della quotidianità italiana mi risulta lontana e antica; respiro a pieni polmoni e ne rimango soffocata.
Con gli occhi percorro le fronde verdi del grande noce così familiare e impietrito nella sua decennale postura. Penso a tutto quello che quegli stessi occhi avevano visto fino a ieri: grattacieli immensi di cui risultava impossibile scorgere l'ultimo piano, persone indaffarate che affollavano le strade, ragazzi e uomini di ogni genere. Ho visto una città in cui ognuno viveva mettendo in gioco ogni parte di sè e con grinta sfidava il futuro. Ho imparato ad amare la frenesia della grande metropoli così pronta al cambiamento e aperta alle novità.
 Come in ogni viaggio, ho trovato a New York una mia patria: per poco tempo volti stranieri sono diventati la mia famiglia, stabilimenti indifferenti la mia casa. Ho imparato ad amarli, per poi separarmene bruscamente e ritornare in questo posto chiamato focolare. Sospesa tra due mondi opposti ne assaporo totalmente le differenze; sento la nostalgia della terra straniera appena lasciata e mi appresto a ricominciare una vita qui, partendo da capo. Comincio a riprendere in mano la quotidianità con uno sguardo nuovo, più ampio: un viaggio non è semplicemente una parentesi di piacere che non ha nulla a che fare con la vita monotona di uno sperduto paesino di campagna, è anzi fermamente legato a tutto questo. Ogni viaggio è un arricchimento indiscusso. Ogni viaggio è la testimonianza della propria decisione di rendere ogni luogo straniero la propria patria, anche se per poco tempo.
Tutto ciò è faticoso, a volte doloroso, ma terribilmente affascinante.

Empire State Building,  panorama

Brooklyn Bridge

Queens


sabato 10 agosto 2013

αναστασια: costruzione e distruzione

Come molto spesso accade rimango vittima del fascino del greco: le sue parole, pur essendo così antiche, hanno la capacità di portare le controverse espressioni di uno stesso concetto. Un'unica parola può esprimere la gioia più intensa o il dolore più devastante: lei è portatrice del significato nella sua interezza ed è solo il contesto in cui viene collocata ad esprimere quale faccia mostrare. Essa è una creta incolore che può assumere tutte le forme e sfumature che lo scrittore le vuole conferire: come un'artista si serve di scalpelli, egli usa parole e aggettivi che pone minuziosamente attorno alla parola per scolpirla e lucidarla a regola d'arte. In questo modo dall'ampio concetto iniziale può far luce solo su una lieve sfumatura.
"anastasìa" - mi raccomando, l'accento è sulla 'i' - è una di queste parole che portano dentro di sé una cosa e il suo contrario: come può esprimere la costruzione, indica anche la distruzione. Leggendo le traduzioni così contrastanti del piccolo trafiletto del dizionario di greco mi sono domandata come fosse possibile: questa piccola parola porta dentro di sé la forza creatrice e distruttrice che tutti gli uomini hanno. Così essa mi sembra esprima il granissimo potenziale che noi abbiamo e che viene esaltato fin dall'antichità; siamo in grado di creare, di domare l'esistente con arti e tecniche, di inventare nuovi mezzi e mondi, esattamente come possiamo utilizzare quello stesso ingegno per distruggere e uccidere. 


Per questo "anastasìa" mi affascina tanto: mi porta a riflettere sul mistero che noi uomini costituiamo.


Parole silenziose?

A volte la mente si perde a rincorrere sottili parole sfuggevoli: sono pensieri che, timidi, stentano a mostrarsi in tutta la loro pienezza. Queste parole non si mettono in una fila ben ordinata, pronte ad essere pronunciate in un vigoroso discorso, ma si nascondono per paura di esser viste. La voce le intimorisce: sono così delicate che un'intonazione troppo violenta potrebbe spezzarle. Prendono coraggio solo alla vista di un foglio bianco e un po' di inchiostro; in quel momento scorrono serene e, fissate su carta, comunicano al mondo intero il loro potente messaggio. 
Questa è la magia delle parole silenziose: senza il bisogno di essere pronunciate portano alla luce i pensieri più intimi e remoti e li trasmettono appieno anche al più improbabile lettore. 
Non so dove questo semplice blog le potrà portare..a qualche amico, forse a qualche curioso. Spero di non annoiare chi le leggerà: parleranno di riflessioni che altrimenti resterebbero inespresse, per poi svanire nel nulla.