Siede davanti a me una ragazza bruna. E' adulta - lo si percepisce dai modi - ma la sua corporatura fa pensare a una bambina: esile e minuta, credo che non superi il metro e mezzo di statura. Si fa ancora più piccola rannicchiandosi su di sé per trovare un po' di riposo in questo suo viaggio. Con una mano mezza nascosta dal cappottino grigio stringe una matita che sembra molto grande e importante così chiusa tra quelle piccole dita. L'agenda nera che tiene in grembo, si capisce, è un album da disegno o qualcosa di molto legato all'arte - sprigiona un senso di poesia tale che non è possibile pensare altrimenti. Le calze nere che incredibilmente riescono a stringere alla perfezione gambe così minute hanno un qualche filo tirato. Un qualche buco. Forse vogliono semplicemente rispecchiare uno stile di vita un po' vagabondo e trasandato, che accoglie la vita così com'è, con tutte le sue imperfezioni. Quelle gambe affondano in stivaletti altrettanto piccoli, neri, che proteggono il piede in modo così dolce. Sono stivaletti con lacci, in stile ottocentesco: quasi un sigillo che rimanda tutta la persona a un'altra dimensione. Chissà dove sta andando questa piccola ragazza, cosa lascia e cosa va a trovare. Chissà quali sentimenti vibrano dentro di lei. Sembra un vaso silenzioso che racchiude un liquido pronto a traboccare.
Ecco: come un riccio non più impaurito distende la schiena e si sveglia. Spalanca gli occhi grandi, verdissimi. Per un attimo mi guarda: forse si chiede se io la stia osservando o se stia semplicemente fissando un punto vuoto. Ancora non si decide a svegliarsi: gli occhi si stropicciano varie volte, la testa richiede l'appoggio del braccio per poter stare sollevata. Alla fine ci riesce: tiene gli occhi aperti un po' increduli per via del sonno e guarda il paesaggio - campi verdi spenti dal grigiore plumbeo.
La sua aura si percepisce, è tutta attorno a lei come se proiettasse volute di fumo che si muovono al ritmo di una melodia silenziosa. I gesti cadenzati danzano con lei: sicuri, sanno già quale posto dovranno occupare, come se la loro fosse una conoscenza innata. Questa ragazza non ha paura, il nuovo non la intimidisce. Le sue mani rivelano tutti i corrimano di Parigi che hanno percorso, tutti i bicchieri di città sconosciute che hanno portato alla bocca, assieme ogni passo tra uno e l’altro, sorso dopo sorso. Quanti ritratti rubati a soggetti ignari, quanti fiumi di parole scivolati sulla carta durante interminabili viaggi in treno. Con distacco e pienezza ha reso ogni singolo posto la sua casa: basta mezz’ora per adattarsi. Il corpo cade sfinito, e in quel momento tutto ciò che ha a disposizione diventa casa: va bene un sedile, come un cuscino, un marciapiede o un letto d’hotel – tutto sembrerà un petalo di rosa.
Una certa malinconia si mischia alla sua poesia errante: occhi pronti ad afferrare, perfettamente rotondi, ma non entusiasti. La sua sembra una certa curiosità distaccata, e forse indifferenza per l’aspetto di ciò che la circonda: la vedo contemplare questi prati che sfilano oltre il finestrino del treno, ma non rimangono affissi nei suoi occhi. La loro immagine scivola via mentre lei assorbe tutto il resto: l’iride travasa l’essenza delle cose, e lei raccogliendola nel petto la amplifica. Questa è la vera musica, il nutrimento continuo di quella sua aura di poesia.
Una parola. La sua voce è così sospirata, sapiente. Sa dove andare. Sa chi è stata. Forse non sa chi è.
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