martedì 1 novembre 2016

Il codice di Perelà di A. Palazzeschi





Mi chiamaste con i nomi più belli, mi strisciaste i vostri inchini più profondi, mi adoraste come una reliquia, poi vi siete accorti che cosa io valevo e mi disprezzaste, mi calpestaste come un rettile, mi ingiuriaste, e mi voleste per sempre lontano da voi, per dimenticarvi sempre di me. Voleste tante cose da me, che io vi dettassi il codice, eccolo, questo solo può essere il codice che io lascio, esso custodiva sulla terra la mia sola virtù. In questo tramonto una piccola nube grigia in forma di uomo, le nubi hanno tante forme, volerà sù sù, traverserà l'orizzonte verso il sole nessuno la scorgerà, forse una povera donna, ed avrà per me un ultimo singhiozzo. A lei il mio ultimo pensiero, a lei che neppure capì quello che io ero solamente: leggero leggero leggero leggero.
A. Palazzeschi, Il codice di Perelà



Il codice di Perelà è certo un romanzo eversivo in cui grazie alla leggerezza del fumo è messa alla berlina la pesantezza dell'uomo.
Perelà è un uomo di fumo che, giunto in un paese immaginario, sconvolge l'ordine della comunità: egli è infatti un elemento assolutamente lontano dalla realtà degli uomini. Egli è un uomo fatto non di carne ma letteralmente di fumo, istruito da tre madri, nato chissà come, e che ha solo una caratteristica: essere leggero. Non è attraversato dalle passioni umane - brama di potere o amore nemmeno lo sfiorano - e nemmeno dalle spinte più razionali ed elevate: è puro fumo distaccato dal reale. Per di più si riserva solo poche parole da dire, usate per spiegare i pochi tratti del suo vissuto di cui è a conoscenza. Per il resto tace davanti agli uomini, non approva né disapprova il loro turbamento, amore od odio che sia. 
In compenso il popolo al suo cospetto sente il bisogno di parlare, ragionare, spiegarsi e - da quale brav'uomo che è - dare una spiegazione. Allora ecco che esalta l'uomo anomalo: ne fa un dio, lo ossequia e lo sente strettamente vicino. In preda al delirio si convince che lui possa essere la soluzione ad ogni male, che lui addirittura possa dettare un codice che regoli alla perfezione quella comunità umana. Persino le donne si sentono onorate della sua presenza ed hanno il coraggio di esprimersi fin nel loro intimo - chissà se tutti si comportano così per pura esaltazione davanti all'anomalo o se perché la leggerezza di Perelà invita gli uomini a lasciar andare la volubilità che è loro propria. 
Poi improvvisamente ecco il suicidio di un personaggio, Alloro: tutti, costernati, incolpano Perelà. L'odio scorre in loro così insensato e irrazionale, ancora più forte della precedente esaltazione amorosa. Così la leggera e volubile spinta del sentimento umano si fa in realtà pesante, trascina paure ed ire di piombo, fino a costringere l'uomo-tutta-leggerezza in una buia e asfissiante cella. 
Fino all'ultimo gli uomini non si accorgono che Perelà non era nessuno: era fumo evanescente che si lascia trasportare da qualsiasi corrente. Era solo fumo senza idee, senza opinioni, senza grandi e pesanti progetti in testa: era semplicemente leggero. Non gli importava di quegli uomini che continuavano ad affannarsi, a fare e disfare opinioni, a corrodersi in passioni altilenanti. E quegli uomini chissà se hanno capito, con la loro presunzione: fosse arrivato Perelà o un grande canarino panciuto non se ne sarebbero resi conto. 
Che inganno, che vergogna, poveri uomini! Gabbati dall'ironia più ingenua e...leggera. 

Carte d'autore online
Archivio Palazzeschi


Il Codice di Perelà fu scritto e pubblicato da Palazzeschi nel 1911. Nonostante la produzione in prosa di questo autore sia scarsamente conosciuta, i suoi scritti meritano una certa attenzione: proprio come la sua poesia sono ironici, eversivi, e molto spesso denunciano ciò che al tempo era scandalo pronunciare. In questo caso Palazzeschi si permette di fare un'originale critica alle passioni umane e allo stesso tempo di illustrarne ironicamente i comportamenti più veri, dal vanto delle proprie qualità ai desideri sessuali femminili. 

Helene Appel, Washing Up

Helene Appel, Fishing Net, 2016, acrilico, acquerello e olio su lino, cm.205x420, particolare
Galleria p420, ph. C. Favero


La pittrice Helene Appel riducendo il proprio segno raggiunge il massimo di realtà. Quella pennellata di colore sottile come un filo stesa su una tela lasciata intatta esprime alla perfezione un oggetto reale: reti abbandonate sulla spiaggia da pescatori, vetri infranti, una macchia d'acqua. Forse una superficie totalmente ricoperta da colore sarebbe risultata eccessiva: bastano poche e sottili linee per rendere la leggera trasparenza di una scheggia di vetro. Helene paradossalmente minimizza l'atto fisico della pittura non per cogliere forme essenziali ed astratte ma, al contrario, per rendere appieno le molteplici sfumature del reale dopo una attenta osservazione di esse. 
Questo paradosso proprio dell'esecuzione tecnica di Helene contribuisce ad esprimere il concetto insito nella sua arte: come attraverso sottili segni rende la pienezza di un oggetto, così pone sulla tela oggetti semplici e comuni facendo capire la loro importanza. I suoi soggetti sono infatti elementi che partecipano inosservati alla vita quotidiana, e proprio perchè sono presenti così di frequente acquistano un valore. Helene, rendendo protagonisti della sua arte un lavello o una chiazza d'acqua rovesciata, opera uno zoom indagando con estrema attenzione ogni suggestione - esplora una goccia d'acqua come fosse un prezioso diamante, forse per denunciare l'importanza di ogni singola cosa che ci circonda.
Forse quello di Helene è un invito lento e riflessivo a porre attenzione a ciò che ci sta intorno, o forse è un atto d'amore verso la semplicità in un mondo che, le cose semplici, non sa più che cosa siano.


Helene Appel, Shards (3), 2016, acquerello e olio su lino, cm.88,5x60,8
Galleria p420, ph. M.Schneider


Helene Appel, Water Spill, 2014, acquerello su lino, cm.67x42.5
Galleria p420, ph. C. Favero

Helene Appel, Seashore, 2016, acrilico e acquerello su lino, cm.280x130
Galleria p420, ph. C. Favero
Helene Appel, Seashore, 2016, acrilico e acquerello su lino, cm.280x130, dettaglio
Galleria p420, ph. C. Favero
La mostra Washing Up è esposta nella galleria d'arte contemporanea p420 di Bologna fino al 12 novembre 2016. 

sabato 10 settembre 2016

Legami

Orchidea bianca
fragile e appassita
tremi al vento
ma con cura ti tengo:
sincero e pieno
di semplice affetto
è il gesto che ti ha posto
tra le mie dita -
tentativo di unione
tra mondi ormai lontani.

È muto affetto
l'unica cosa che si può dire.





venerdì 8 luglio 2016

The Floating Piers

Certo è difficile rievocare sensazioni provate a distanza di tempo, ma ci proverò.
Di primo impatto quella passerella sembrava l'antica ύβρις greca: come Serse, l'uomo è andato oltre al proprio potere camminando sulle acque, piegando la natura per far passare migliaia di persone da una sponda all'altra. Eppure questa stessa azione ha un sapore totalmente diverso: l'uomo moderno ha già piegato la natura al suo volere così tanto che non sente quest'opera una sfida ai propri limiti, ma una gioiosa messa in atto della τέχνη umana volta alla libertà.
Questa è in tutto e per tutto un'opera libera, fluente, affacciata sull'immenso. Le masse di persone che vi transitano sembrano carovane che migrano in un paesaggio dell'anima, alla ricerca di un destino, così sospese su questa strada sottile. Leggeri, si amalgamano con la fluidità dell'acqua che scorre sotto di loro, se ne lasciano inondare.

Mentre lasciavano che i loro piedi sentissero la consistenza del telo e le oscillazioni, il paesaggio cambiava. Potevano ammirare il sole filtrare tra le nuvole e cadere sulle onde senza fretta. Seguendo il proprio ritmo potevano fermarsi, affascinati da un dato riflesso. Potevano trasformarsi.
Anche io cambiai. Quando il sole scese, tramontai con lui. I tenui riflessi di rosa e d'azzurro si espansero, ed erano in me. Sbocciò la serenità della sera, della riflessione. Ci fu la consapevolezza di un passaggio - un viaggio si chiude, se ne apre un altro.
Come quell'acqua ero sempre io, ma sempre diversa: tutto scorre, nessun punto è uguale a se stesso.

sabato 11 giugno 2016

La notte di Amelia

Amelia fece schioccare la serratura della porta di casa e un marchingegno si azionò, producendo un lento rumore di spessi tubi d’acciaio che scorrono. Non entrò subito: chiuse gli occhi e fece un lungo respiro per nutrirsi dell’aria ferma della notte. Era un’aria serena, che sembrava aver dimenticato tutti i rumori del giorno: si espandeva rilassata ad abbracciare gli spazi vuoti tra gli edifici, a confortare il sonno di uccelli accovacciati sugli alberi, a solleticare i signori della notte perché uscissero dalle loro tane. Affascinata da quell’atmosfera Amelia tolse la mano dalla maniglia e si voltò, facendo sprofondare lo sguardo nell’oscurità. Era una notte senza luna, illuminata qua è là dai lampioni della strada. Ammirò la linea precisa che separava il limite dei campi dal cielo: un nero cupo e indecifrabile contro un cielo appena blu, rischiarato da qualche città lontana. Il paesaggio, rispetto al giorno, era profondamente mutato ma comunque percepibile. Sentiva i suoi sensi amplificarsi per adattarsi ad esso, e vedeva. Vedeva ogni contorno degli alberi, percepiva ogni sfumatura. Sentiva i passi scricchiolanti dei ricci, coglieva il volo dei pipistrelli. La notte ormai l’avvolgeva, vi si era addentrata. Fu allora che alzò lo sguardo verso l’alto: le stelle. Scorsero nelle sue vene antiche emozioni, si sentì protetta. Pensò a Dante che, giunto alla fine dell’Inferno, volle rivedere le stelle come suggello del suo viaggio infernale: le stelle come sospiro di sollievo dopo aver attraversato il luogo di perdizione più nero. Amelia si sentì così: accolta tra le braccia della notte, confortata da ogni angoscia della giornata. Finalmente i suoi muscoli si distendevano, mentre perdeva la sensazione di pesantezza del suo corpo. Così leggera rivide le sue costellazioni. Sorrise lievemente, un tremito di gioia la percorse. Si sentì parte di quel cielo, la stella dentro al suo petto tremò ora che si era ricongiunta alle sue compagne.

mercoledì 27 aprile 2016

Ritratti: viaggiatori, n.1

Siede davanti a me una ragazza bruna. E' adulta - lo si percepisce dai modi - ma la sua corporatura fa pensare a una bambina: esile e minuta, credo che non superi il metro e mezzo di statura. Si fa ancora più piccola rannicchiandosi su di sé per trovare un po' di riposo in questo suo viaggio. Con una mano mezza nascosta dal cappottino grigio stringe una matita che sembra molto grande e importante così chiusa tra quelle piccole dita. L'agenda nera che tiene in grembo, si capisce, è un album da disegno o qualcosa di molto legato all'arte - sprigiona un senso di poesia tale che non è possibile pensare altrimenti. Le calze nere che incredibilmente riescono a stringere alla perfezione gambe così minute hanno un qualche filo tirato. Un qualche buco. Forse vogliono semplicemente rispecchiare uno stile di vita un po' vagabondo e trasandato, che accoglie la vita così com'è, con tutte le sue imperfezioni. Quelle gambe affondano in stivaletti altrettanto piccoli, neri, che proteggono il piede in modo così dolce. Sono stivaletti con lacci, in stile ottocentesco: quasi un sigillo che rimanda tutta la persona a un'altra dimensione. Chissà dove sta andando questa piccola ragazza, cosa lascia e cosa va a trovare. Chissà quali sentimenti vibrano dentro di lei. Sembra un vaso silenzioso che racchiude un liquido pronto a traboccare.
Ecco: come un riccio non più impaurito distende la schiena e si sveglia. Spalanca gli occhi grandi, verdissimi. Per un attimo mi guarda: forse si chiede se io la stia osservando o se stia semplicemente fissando un punto vuoto. Ancora non si decide a svegliarsi: gli occhi si stropicciano varie volte, la testa richiede l'appoggio del braccio per poter stare sollevata. Alla fine ci riesce: tiene gli occhi aperti un po' increduli per via del sonno e guarda il paesaggio - campi verdi spenti dal grigiore plumbeo. 
La sua aura si percepisce, è tutta attorno a lei come se proiettasse volute di fumo che si muovono al ritmo di una melodia silenziosa. I gesti cadenzati danzano con lei: sicuri, sanno già quale posto dovranno occupare, come se la loro fosse una conoscenza innata. Questa ragazza non ha paura, il nuovo non la intimidisce. Le sue mani rivelano tutti i corrimano di Parigi che hanno percorso, tutti i bicchieri di città sconosciute che hanno portato alla bocca, assieme ogni passo tra uno e l’altro, sorso dopo sorso. Quanti ritratti rubati a soggetti ignari, quanti fiumi di parole scivolati sulla carta durante interminabili viaggi in treno. Con distacco e pienezza ha reso ogni singolo posto la sua casa: basta mezz’ora per adattarsi. Il corpo cade sfinito, e in quel momento tutto ciò che ha a disposizione diventa casa: va bene un sedile, come un cuscino, un marciapiede o un letto d’hotel – tutto sembrerà un petalo di rosa.
Una certa malinconia si mischia alla sua poesia errante: occhi pronti ad afferrare, perfettamente rotondi, ma non entusiasti. La sua sembra una certa curiosità distaccata, e forse indifferenza per l’aspetto di ciò che la circonda: la vedo contemplare questi prati che sfilano oltre il finestrino del treno, ma non rimangono affissi nei suoi occhi. La loro immagine scivola via mentre lei assorbe tutto il resto: l’iride travasa l’essenza delle cose, e lei raccogliendola nel petto la amplifica. Questa è la vera musica, il nutrimento continuo di quella sua aura di poesia.

Una parola. La sua voce è così sospirata, sapiente. Sa dove andare. Sa chi è stata. Forse non sa chi è. 

martedì 5 aprile 2016

(Riva del fiume)




Quiete, o quiete
odio la tua stasi -
camminando su di te
come suolo conosciuto
calpestato, appiattito
dai passi dell'abitudine.
Sei freno all'ardire
sabbia in cui il fuoco non s'apprende.

Rupi scoscese
intrepidi mari
cieli ventosi
nel mio animo:
intrepidano il cuore.

Tremo d'ardore
ma le mani non muovono
il remo - troppo sicuro è
il tuo rifugio
perché io vada,
o mia quiete
mia odiata quiete.